Caro fratello, cara sorella,
mi colpisce sempre della scena della nascita di Gesù questo particolare che il Vangelo di Luca riporta. Maria avvolge in fasce Gesù e lo depone in una mangiatoia. Non sappiamo se il luogo dove si trovavano fosse una grotta o una casa, ma una cosa è certa: Maria ha uno strumento di protezione, le fasce per proteggerlo, custodirlo, accudirlo. Poi è adagiato in una mangiatoia. Gesù è adagiato nella greppia degli animali. Un posto non certo per neonati. Pieno di sporcizia, adatto solo far mangiare gli animali.
Alcuni commentatori hanno voluto accostare questo accenno del Vangelo collegando il primo luogo dove viene deposto all’ultimo dove celebra la cena di Pasqua: «Questo è il mio corpo, prendete e mangiate» (Mt 26,26). È una missione che parte «dal basso», dove tutti lo possono vedere, incontrare, trovare. È curato, ma sta al posto del cibo. È adagiato, ma poi innalzato sulla croce e deposto nel sepolcro.
Dice infatti il Vangelo: «Giuseppe d’Arimatea si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù. Lo depose dalla croce, lo avvolse con un lenzuolo e lo mise in un sepolcro scavato nella roccia, nel quale nessuno era stato ancora sepolto».
Scorgiamo in questo gesto dell’avvolgere in fasce (o nel lenzuolo della sepoltura) il segno della tenerezza necessaria per accompagnare la vita dell’uomo, dal suo nascere al suo compimento: una cura che domanda garbo, delicatezza, affetto amoroso. Una cura che è cura del corpo, non solo dello spirito: prendersi a cuore la sorte degli uomini implica necessariamente la premura nei confronti dei loro corpi malati e fragili, e non per caso in molti Paesi del mondo l’annuncio del Vangelo passa attraverso l’attenzione alle necessità primarie degli esseri umani, come il cibo, l’acqua, la salute. Pochi capitoli dopo, l’evangelista Luca riporta l’episodio dell’uomo soccorso per strada da un Samaritano che «gli si fece vicino, gli fasciò le ferite» (Lc.10,25-17).
Il vero Natale deve curare le ferite che ci sono nel cuore delle persone e dei popoli.
Gesù fin da subito evangelizza non con la forza ma con la debolezza, con la sua fragilità di neonato che suscita gesti semplici e concreti di attenzione. Non fa nulla, non dice nulla, probabilmente piange come tutti i bambini, chiede cibo, domanda riposo. E in questo suo adattarsi per trovare posto sulla scena del mondo suggerisce la discrezione silenziosa di un annuncio sussurrato, raccolto, quieto. Entra in punta di piedi, senza fare baccano. E i primi a trovarlo sono gli ultimi, i pastori lasciati ai margini della società che conta - politica e religiosa -, gente abituata alla fatica e ai disagi, ma soprattutto abituata a camminare, mai ad accomodarsi tranquilla. Forse proprio per questo capace di scorgere subito la divinità del Bambino. Luca mette sulla bocca degli angeli che si rivolgono loro questa indicazione sorprendente: Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia (Lc 2,12).
Il segno del divino nel mondo non è il canto dell’esercito celeste, ma il Bambino inerme e bisognoso di tutto deposto per terra, in una stalla. La devozione popolare gli ha posto accanto l’asino e il bue, presenze silenziose e discrete che tengono compagnia e scaldano col loro corpo e il loro fiato, senza potere né volere né sapere dire nulla. Non serve. In fondo questa immagine che abbiamo tutti in mente, così tradizionale, ci domanda due cose concrete nella vita: farci pane e stare in movimento. Mangiati anche noi per nutrire qualcuno, e farci nomadi dello spirito, cercatori di Qualcuno. Guardando il presepe, in questi giorni, che possiamo trovare la forza di aprirgli la porta del cuore, e accettare la nostra vocazione di fecondità e di cammino verso di Lui, fino al Cielo. Questo è l’Anno Santo che si apre per ciascuno di noi.
Tanti auguri di buon Natale e buon Giubileo!
Con il cuore
Don Donato
Natale 2024
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Editoriale
Gli auguri di Natale
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