Sei entrato in chiesa perché vuoi pregare. Fermati e trova il tempo per riposarti e riprendere speranza con questa preghiera. Ogni settimana un testo diverso di autori di varie tradizioni per aiutarti a ritrovare il gusto della preghiera silenziosa. Perché, diceva Sant’Agostino: «nutre l’anima solo ciò che la rallegra».

 

Ora lascia o Signore

 Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo
vada in pace, secondo la tua parola,
perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza,
preparata da te davanti a tutti i popoli:
luce per rivelarti alle genti
e gloria del tuo popolo, Israele
Lc. 2,29-32

Oggi lasciamo che siano le parole dell’anziano Simeone, riportate nel Vangelo di Luca e lette nella festa della presentazione al Tempio di Gesù, a guidare la riflessione e la preghiera. È un canto che mette pace, così bello da proclamare che si fa proprio fatica a commentarlo. La liturgia ce lo fa ripetere tutte le sere, nella preghiera finale della giornata, come una canzone dolce che sfuma in un sonno buono. Ci regala parole di compimento, di pienezza, di grande libertà. Abbiamo finito, abbiamo concluso bene, adesso si può andare. Sembra lasciare nel cuore un’infinita nostalgia del cielo, il desiderio di condurre a buon fine tutta una vita di opere e di attese, di affetti e di contrasti.

Simeone nel Tempio di Gerusalemme prende tra le braccia un bambino: la vita nel suo inizio, nel momento più fragile dell’esistenza. È un gesto di grande fede, di grande fiducia. Fiducia di Simeone nei confronti di questo bambino, apparentemente uguale a tanti altri, «meno» degli altri - addirittu­ra - dal punto di vista della nobiltà della nascita. E grande fiducia di Dio nei confronti dell’uomo. Dio si lascia prendere in braccio da un anziano. L’atto di fede di Simeone diventa un gesto di custodia, di cura, di affetto. Attese e desideri si condensano in un gesto solo. Due debolezze si abbracciano.

La nostra fede è qualcosa di piccolo, di povero, come lo è que­sto bimbo nelle mani di Simeone. Quel bambino non è in grado di vivere da solo, di alimentarsi, di pensare alla propria vita. Ha bisogno di qualcuno che lo accudisca, che se ne prenda cura, che lo protegga, lo faccia crescere.

Simeone ci insegna che la fede non è possesso di qualcosa, non è patrimonio di cui si può vivere di rendita, ma va accolta e custodita come gesto quotidiano. E ci rivela che possiamo fidarci anche den­tro l’oscurità della morte, 1’avvicinarsi della fine, come fa Simeone. Anche dentro ciò che c’è di più oscuro diventa possibile affrontare dei passi, perché riscopriamo la possibilità di fidarci di colui che si è fidato innanzitutto di noi, di chi ha riposto fiducia nella nostra umanità, per quanto povera essa sia.

La fede, così come Simeone ce la racconta, va custodita come dono. In un delizioso racconto, che ci è stato tramandato, si parla di crociati che, nelle loro peregrinazioni, un giorno a Bassora si imbatterono in una donna, Rabi’ha, una mistica islamica, che se ne andava senza mai fermarsi, portando in un secchio dell’acqua e nell’altro del fuoco. A chi le domandava perché se ne andasse senza soste, portando acqua e fuoco, rispondeva che portava ac­qua per spegnere le fiamme dell’inferno e fuoco per bruciare il paradiso, perché, diceva, nessuno più facesse il bene per meritarsi il paradiso o per il timore dell’inferno, ma gratuitamente, solo per la gioia di farlo.

La fede non si radica nella paura di un castigo e nemmeno nella pretesa di un premio. Essa è incontro gratuito con quel Dio che si consegna nelle mani dell’umanità. Come dice la preghiera di Simeone, un Dio così è luce per tutti i popoli, è dono che tutti possono imparare a riconoscere e accogliere.

 

 

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