È il titolo di un film uscito da poco che racconta il viaggio che alcuni ragazzi fanno per raggiungere ogni giorno la scuola in quattro parti del mondo: Marocco, India, Patagonia-Argentina, Kenia.

I ragazzi vivono in posti molto disagiati e il percorso che devono compiere per andare a scuola dura molte ore ed è pieno di pericoli, di fatiche ma anche di scoperte. Insieme al racconto del viaggio nel film ci sono anche brevi sequenze sulla loro vita in famiglia, sul rapporto tra loro, su quello col loro corpo, col loro abbigliamento, con la famiglia, coi compagni di scuola, con lo studio, con la natura bellissima e pericolosa che hanno intorno.

Quasi senza volerlo, guardando il film si pensa alla vita parallela dei nostri ragazzi, alla loro vita in città, ai luoghi che frequentano, al loro rapporto con noi e con fratelli, coi loro compagni di scuola e i loro amici. Si pensa anche al loro rapporto con la natura, e poi a quello col mondo adulto in generale, al significato che danno all’istituzione scuola e al loro studio, al rapporto con le chiese che frequentano. Si pensa ai loro desideri, alla loro fatica per cercare spazi di vera libertà, alle loro aspirazioni sul futuro.

Nel film la nonna pakistana, seduta per terra, mentre continua a filare la lana, dice alla nipote che la saluta e le chiede una benedizione prima di partire per la scuola: “Se studi sarai più felice e farai più felici tutti noi, e potrai anche aiutare gli altri”. Una specie di favola edificante piena di positivismo e di fiducia nel futuro.

E ci vengono in mente i discorsi di noi adulti quando parliamo coi nostri ragazzi dei loro risultati scolastici e delle nostre aspettative e priorità su di loro nella scuola, negli sport che frequentano, nel gruppo di amici: la parola felicità mi sembra poco frequentata. Si pensa anche alla fatica di vivere nelle nostre città trasformate quasi, spesso, in luoghi da cui difendersi, e comunque non sempre gradevoli e sereni. E alla loro (nostra) fatica a viverci, luoghi diversi certo dal deserto e dalla piena dei fiumi del film, ma ugualmente difficili e a volte pieni di degrado nei suoi vari aspetti. Si pensa anche alla difficoltà per i nostri ragazzi di trovare nell’umanità che li circonda stili di vita positivi. Si pensa con gioia alla libertà responsabile dei ragazzi del film, quasi impossibile da concepire nel nostro mondo in cui la relazione tra il giusto desiderio di libertà e la realtà possibile è quasi sempre stravolto.

La mente va anche in questi giorni per noi che viviamo a Roma al tristissimo episodio delle ragazzine parioline e alle loro storie. Ma il confronto fra la realtà del film e la nostra è forse inutile. Ed è anche inutile colpevolizzare alternativamente lo Stato, il Comune, la famiglia, la scuola, la chiesa, internet, perché il comportamento dei ragazzi, e a volte anche il nostro, è frutto di una tendenza collettiva alla quale è quasi impossibile far fronte. Ma anche rilevare soltanto lo stato di salute della nostra società quasi sull’orlo di un baratro di disumanità e rammaricarcene tristemente non ci aiuterà a uscirne, lo sappiamo.

Neanche ci aiuta ormai più riflettere sulla autodistruzione mascherata da benessere e civiltà nuova nella quale siamo tutti immersi. Le analisi le sappiamo a memoria. Come anche sappiamo che da soli non possiamo certo migliorare questo stato di cose di cui tutti ormai siamo consapevoli.

E allora? Forse potremmo cercare, come possiamo e in ogni occasione, tutti noi, genitori (mamme e papà insieme), educatori, nonni, di non avere e non trasmettere atteggiamenti pessimistici o, peggio, di indifferenza verso la società e la natura, o verso tutti gli altri, dal compagno di scuola al vicino di casa ai rom. Potremmo insieme a loro indignarci come quando anche noi eravamo giovani per le ingiustizie e i soprusi pubblici e privati, e cercare insieme una qualche soluzione di intervento. Potremmo anche coltivare insieme a loro sogni di emancipazione vera. Potremmo non mostrarci indifferenti alla vita che ci circonda, comunque vissuta. Potremmo non trasmettere l’idea che il successo scolastico o sociale abbia soltanto il significato di possesso di privilegi e di denaro ma anche di crescita e di gioia personale.

Può darsi che così facendo vivremmo meglio noi ed eviteremmo almeno di notare spesso quell’annoiata indifferenza da cui sono presi frequentemente molti dei nostri ragazzi.

Penso che ognuno può continuare da solo l’elenco degli atteggiamenti che potrebbero cambiare un po’ le cose. Per noi e per loro.

Rachele Filippetto

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La parrocchia ha chiesto al Municipio rassicurazioni
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