San Leone era la nostra parrocchia. Ci partecipavano tanti. Guardandola, a sinistra c’era un terreno, dove adesso è Largo Boccea, che era delle suore francesi, dover si faceva il ritiro della comunione. Nella parte a destra, dove ora sono i bambini, c’erano i giochi delle femminelle, dove i maschi non potevano entrare, e in fondo c’erano le canne. Da lì partiva il prete coi chierichetti e la campanella. Tutti i bambini volevano fare i chierichetti; anche io, perché c’era una bambina carina e volevo portargli la comunione.
Lì c’era un prete, padre Mario, molto severo. Un giorno avevo scavalcato la rete e ero andato dalle bambine a prendere le canne. La perpetua mi vide e si mise a strillare. Io per scappare mentre scavalcavo la rete ero rimasto attaccato per un piede al filo spinato, ero caduto e m’ero fatto male a un braccio. La perpetua era arrivata e aveva cominciato a menarmi, poi arrivò il prete e strillava “Mascalzone!” Riuscii a scappare; il braccio mi faceva male; infatti era rotto.
I chierichetti avevano il vestito bello, bianco, rosso. Anche io volevo farlo e un giorno ero andato con un mio amico chierichetto. Le suore francesi aiutavano in parrocchia. Quella che c’era quel giorno mi chiese: “Tu come ti devi vestire?” “Con quello” dissi io, indicando l’abito rosso. Me lo mise, ed ero tutto contento, quando arrivò il prete. Mi ricordo ancora che si aprì la porticina verso il giardino ed entrò don Mario. Mi guardò e disse: “Chi ha vestito questo diavolo?!” Si avvicinò e mi strappò di dosso l’abito. Io uscendo gli strillai “Li mortacci tua!” Allora si diceva. Mi corse appresso fino alla fontanella. Io correvo di più; poi rallentavo apposta e mi facevo quasi prendere, poi aumentavo. Lui era proprio imbestialito. Da allora non mi ha più potuto vedere: così non ho potuto fare il chierichetto.
Per me la scuola era come un carcere, per questo ho cominciato a lavorare molto presto. La mia vera scuola è stata la campagna qui intorno. Nelle valli c’erano – e a Valle Aurelia e a Valle dell’Inferno ancora si incontrano – rane, ramarri, serpi, bisce d’acqua, lepri, volpi. Nei laghetti c’erano dei pescetti bianchi che ancora non so come ci fossero arrivati. Ci andavamo di nascosto dai genitori perché era pericoloso.
Durante la guerra mia nonna ci portava per la campagna verso Valle dell’Inferno e ci insegnava le piante da mangiare. Mi ricordo la bieta selvatica, che si trova ancora su per la Via Aurelia , il finocchio selvatico buonissimo nella minestra purché se ne metta poco perché ha sapore molto forte. C’erano delle piante che facevano dei fruttini a forma di lente, buonissimi. Intorno c’erano tanti orti che vendevano verdura e frutta. Mi ricordo bene quelli sul pendio dove ora c’è Via Scaduto e Via Gandino, dove c’erano tante casette dei fornaciari. Quando falciavano il grano, mia nonna raccoglieva le spighe che restavano, e ci faceva il pane. C’era poco da mangiare, ma non si moriva di fame. Spesso si andava scalzi. C’era una signora marchigiana che faceva le scarpe di pezzi di stoffa. Con quelle più spesse, e col feltro dei cappelli, faceva le suole, tutte cucite. Oppure si andava con gli zoccoli. Io avevo le vesciche ai piedi.
(Franco del '34)
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