Io abitavo a via Accursio, dove ora c’è la posta. Lì c’erano tre villini e poi casette abitate da gente che veniva dalla campagna e dai paesi, gente che non aveva niente. Erano muratori, artigiani, si facevano la casetta dove capitava. In un villino abitava Brunelli il fotografo di Piazza Irnerio.

In Via Accursio il palazzo dove ora c’è il ristorante lo fece Antonio Folchitto. Prima della guerra Folchitto era stato in Canadà, aveva fatto un po’ di soldi lavorando per fare le ferrovie e quando era tornato aveva cominciato a costruire quella casa. La fece da solo. C’aveva la buca della calce, si faceva aiutare da qualche disperato. Ci mise vent’anni. Diceva: quando arrivo su, ci metto S. Antonio. Sull’angolo la statuetta c’è ancora.

Folchitto aveva aperto al piano terra un negozio di fornaio e pizzicheria. A chi non aveva soldi dava e segnava su un libro. Ha preso qualche fregatura, ma dopo la guerra la gente che s’era un po’ ripresa glieli ha dati i soldi. Me lo ricordo come un santo.

In una casetta di due locali abitava una donna. Era una ragazza madre con due figli che l’uomo l’aveva lasciata. Me la ricordo sempre vecchia. Faceva la lavandaia, aveva la fontana fuori, che d’inverno gelava anche. Venivano i militari di Forte Braschi a portargli i panni. Lei lavava e stirava.

Aveva due figli, che erano miei amici. Giovanni cominciò a fare il fabbro, Sandro faceva il nullafacente. Aveva fatto qualche furtarello, mi pare una bicicletta e dei fili elettrici, perciò era andato in galera. Aveva pagato caro perché ogni volta che c’era un furto l’andavano a prendere. Il maresciallo l’interrogava, anche se non c’entrava niente e gli davano un sacco di botte. Così ogni volta che vedeva il maresciallo gli venivano attacchi di paura e doveva andare al bagno. Storie della povera gente: per piccole cose facevano un vita di galera; li acchiappavano sempre, anche per impaurirli.

Sandro era un bel ragazzo. C’aveva solo un vestito e ogni volta mi chiedeva la cravatta. Mise incinta una ragazzetta che abitava alle Fornaci. La famiglia la cacciò e lui la portò a casa dalla madre.

La madre per arrotondare aveva preso in casa una coppia, Gisella e Nicola, che non erano sposati. A quei tempi era uno scandalo. Nicola era sordomuto. Andava a lavorare dai Benedettini all’inizio di Via di Torre Rossa che lì avevano dei grandi orti. Nicola ci raccontava a gesti e versi le marachelle che combinavano i Benedettini.

Lì in quasi tutte le case c’era qualcuno in subaffitto, perché la gente non aveva soldi per pagare un affitto. Così in Via Accursio c’era tante gente e quando uscivo era una felicità perché era pieno di bambini.

(Franco del '34)

 

 

 

San Leone era la nostra parrocchia. Ci partecipavano tanti. Guardandola, a sinistra c’era un terreno, dove adesso è Largo Boccea, che era delle suore francesi, dover si faceva il ritiro della comunione. Nella parte a destra, dove ora sono i bambini, c’erano i giochi delle femminelle, dove i maschi non potevano entrare, e in fondo c’erano le canne. Da lì partiva il prete coi chierichetti e la campanella. Tutti i bambini volevano fare i chierichetti; anche io, perché c’era una bambina carina e volevo portargli la comunione.

Lì c’era un prete, padre Mario, molto severo. Un giorno avevo scavalcato la rete e ero andato dalle bambine a prendere le canne. La perpetua mi vide e si mise a strillare. Io per scappare mentre scavalcavo la rete ero rimasto attaccato per un piede al filo spinato, ero caduto e m’ero fatto male a un braccio. La perpetua era arrivata e aveva cominciato a menarmi, poi arrivò il prete e strillava “Mascalzone!” Riuscii a scappare; il braccio mi faceva male; infatti era rotto.

I chierichetti avevano il vestito bello, bianco, rosso. Anche io volevo farlo e un giorno ero andato con un mio amico chierichetto. Le suore francesi aiutavano in parrocchia. Quella che c’era quel giorno mi chiese: “Tu come ti devi vestire?” “Con quello” dissi io, indicando l’abito rosso. Me lo mise, ed ero tutto contento, quando arrivò il prete. Mi ricordo ancora che si aprì la porticina verso il giardino ed entrò don Mario. Mi guardò e disse: “Chi ha vestito questo diavolo?!” Si avvicinò e mi strappò di dosso l’abito. Io uscendo gli strillai “Li mortacci tua!” Allora si diceva. Mi corse appresso fino alla fontanella. Io correvo di più; poi rallentavo apposta e mi facevo quasi prendere, poi aumentavo. Lui era proprio imbestialito. Da allora non mi ha più potuto vedere: così non ho potuto fare il chierichetto.

Per me la scuola era come un carcere, per questo ho cominciato a lavorare molto presto. La mia vera scuola è stata la campagna qui intorno. Nelle valli c’erano – e a Valle Aurelia e a Valle dell’Inferno ancora si incontrano – rane, ramarri, serpi, bisce d’acqua, lepri, volpi. Nei laghetti c’erano dei pescetti bianchi che ancora non so come ci fossero arrivati. Ci andavamo di nascosto dai genitori perché era pericoloso.

Durante la guerra mia nonna ci portava per la campagna verso Valle dell’Inferno e ci insegnava le piante da mangiare. Mi ricordo la bieta selvatica, che si trova ancora su per la Via Aurelia , il finocchio selvatico buonissimo nella minestra purché se ne metta poco perché ha sapore molto forte. C’erano delle piante che facevano dei fruttini a forma di lente, buonissimi. Intorno c’erano tanti orti che vendevano verdura e frutta. Mi ricordo bene quelli sul pendio dove ora c’è Via Scaduto e Via Gandino, dove c’erano tante casette dei fornaciari. Quando falciavano il grano, mia nonna raccoglieva le spighe che restavano, e ci faceva il pane. C’era poco da mangiare, ma non si moriva di fame. Spesso si andava scalzi. C’era una signora marchigiana che faceva le scarpe di pezzi di stoffa. Con quelle più spesse, e col feltro dei cappelli, faceva le suole, tutte cucite. Oppure si andava con gli zoccoli. Io avevo le vesciche ai piedi.

(Franco del '34)

 

 

 

In un’altra baracchetta di Via Accursio c’erano Rodolfo e Lauretta, napoletani.  Lui era un muratore, bravissimo.  Aveva un portamento da signore.  Era simpatico, intelligente, con lui si parlava bene.  Stavamo a bocca aperta a sentirlo.

Lauretta faceva tutto.  Lì vicino, a Via Pier delle Vigne  c’era il cinema Plinius: lo chiamavamo il pidocchietto. Dalla campagne di Primavalle venivano al cinema con le biciclette e le lasciavano nel cortile della signora Lauretta che gliele guardava per 1 lira.

Lauretta con l’olio levava il malocchio alle persone.  Se avevi un trauma o qualcosa nell’occhio, ti rimetteva a posto.  Curava con le piante.

Lì vicino c’era un falegname, lavorava piccoli mobili.  Aveva due figli e vivevano in 4 in una stanza e cucina. Gli davano l’acconto, ma lui i mobili non li finiva mai.  La moglie, Maria del vicoletto,  andava a servizio.

La situazione delle donne era pesante. Tante sostenevano la casa. C’erano delle coppie che venivano dal paese, dove lei aveva avuto un fidanzato che l’aveva lasciata e allora lei non poteva più viverci tranquilla. Qui quelle coppie che convivevano erano criticate. 

Così era criticata la madre dei miei amici Sandro e Giovanni, lavandaia.  Ogni tanto veniva a trovarla quello che l’aveva abbandonata:  un signore ben vestito.  Lei non aveva titolo di studio, ma era buona.  A noi ragazzi nessuno ci dava un po’ di spazio per ballare; noi andavamo da lei, lei ammucchiava i panni e ci lasciava spazio. All’inizio avevamo un giradischi a manovella, poi elettrico e una signora ci prestava i dischi.  Una ragazza che aveva problemi alle gambe metteva su i dischi; noi ballavamo e ci divertivamo da pazzi.

I Fornaciari e quasi tutti, erano Comunisti o Repubblicani: qui i Fascisti non ci venivano  Non c’era malavita. C’era gente di quartiere che menava le mani.  Fra ragazzi si facevano le squadre e ci si scontrava a pugni. Si diceva: andiamo lì e facciamo a botte.  C’erano i ragazzi di Piazza Irnerio, quelli di Via Azone, quelli della Valle dell’Inferno, i figli della sora Pia che erano tanti…  Era una lotta dura, ma senza bastoni e sassi.  C’era lealtà.  Se uno diceva “Voi siete tanti!” oppure “Tu sei più grande”, quelli si facevano da parte.  Era una regola di strada che era più di una legge.  Io non ricordo grandi prepotenze.  Chi vinceva era rispettato. Non si portava rancore e delle volte si diventava amici

Un’altra regola: se trovavi qualcosa e uno che era con te diceva “Mezzi!” dovevi dividerla con lui; se invece eri più svelto e dicevi “Senza i mezzi” allora era tutta tua.

(Franco del '34)

 

 

 

Qui nel quartiere era così... I posti, l’ambiente, le case, le persone, la vita nel nostro quartiere tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta. Raccontati da chi li ha vissuti. Ogni settimana, una nuova.

Questa pagina racconta le storie, le case, la natura di questa parte di Roma, con le parole di chi le ha vissute.

E’ una pagina di scoperte ed emozioni davvero belle, specie per chi vive qui.

Aiutiamoci a “scriverla” finché le nostre memorie ce lo permettono. Creerà legami fra le persone: saremo più società e meno isolati. E potremo magari anche divertirci.

Attendiamo contributi!


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